A cura di Valter Giordano, Claudio Bongiovanni, Maurizio Barra, Cristina Lavina, Nicola Garassino, Rosanna Giordano e Franco Ferraro.
Rompiamo il silenzio anche sulle nuove gravi misure legislative che consentono il licenziamento per "ragioni economiche".
Pubblichiamo, sul tema un articolo che ci spiega le ragioni che tanto ci preoccupano.
Licenziamento per “ragioni economiche”: come cade (silenziosamente) il mito del “posto fisso”nella P.a. di Germana Caruso e Marika Di Biase. La crisi finanziaria e gli impegni assunti con l’Unione europea chiamano in causa, oggi più che mai,
la necessità di un ridisegno complessivo del settore pubblico all’insegna della riduzione della spesa.
Abbattere quell’anomalia tutta italiana di una allocazione inefficiente delle risorse: questo l’obiettivo sottostante ad alcuni dei più recenti interventi normativi che hanno riguardato la P.a. La ricetta proposta dal Governo Monti è la spending review, un processo di riduzione chirurgica della spesa il cui effetto andrà a sommarsi, almeno inizialmente, ai risparmi conseguibili con l’applicazione dei tagli lineari disposti dalle Manovre estive.
Tuttavia, perché le misure intraprese siano produttive di risparmi effettivi è necessario il rilancio di un dibattito serio sulle riforme delle pubbliche amministrazioni, perché i risparmi non si producono solo con i tagli, ma, prima di tutto, con l’innovazione. Innovazione che nel settore pubblico va declinata in termini di razionalizzazione delle strutture e riorganizzazione delle funzioni.
Eppure, ogni qual volta si tenti di metter mano a processi di ristrutturazione, anche giusti in linea
teorica, soprattutto in ottica di lungo periodo, ci si scontra con la gestione di pesanti effetti
collaterali: quelle eccedenze di personale che, sino ad oggi, le amministrazioni pubbliche non hanno mai spontaneamente dichiarato.
Dalla creazione del Super Inps al disegno di riforma dell’Ente Provincia, il tutto sulla carta è racchiuso in una formula, quella del trasferimento delle risorse strumentali, umane e finanziarie.
Parole che fino a ieri non avrebbero destato rilevanti preoccupazioni e che, oggi, alla luce delle modifiche apportate alla disciplina delle eccedenze di personale nella P.A. potrebbero segnare il passaggio all’era di un pubblico impiego sempre meno protetto.
Ancorando la dichiarazione di eccedenza anche a dati gestionali, come le esigenze funzionali e la situazione finanziaria, la Legge di stabilità 2012 (l. n. 183/2011) ha inteso rendere più fluido e veloce il procedimento per dichiarare l'esubero dei dipendenti pubblici. Con la riscrittura dell’art. 33, d.lgs. 165/2001 risulta rafforzato l'obbligo delle p.a. di verificare, annualmente, l'adeguatezza
del numero dei propri dipendenti in relazione alle attività svolte. In più, la legge mette in relazione
diretta l'eccedenza di personale alle dipendenze della pubblica amministrazione con la rilevazione
di una «situazione finanziaria» tanto negativa da potervi rimediare mediante riduzione della forza lavoro.
Questo, in altri termini, equivale a sancire la possibilità di attivare un percorso finalizzato al licenziamento del dipendente pubblico, essenzialmente per «ragioni economiche».
E, pure trattandosi di una materia di impatto rilevante sul fronte del capitale umano, le relazioni sindacali sul punto vengono ridotte all’obbligo di informazione preventiva alle Rsu e ai sindacati firmatari del contratto nazionale. Non ci saranno tavoli per discutere i motivi delle eccedenze e per
trovare eventuali soluzioni, non c’è più alcun contenuto obbligatorio da inviare ai sindacati.
Il tentativo di ricollocare il personale al proprio interno o presso altre P.A., anche attraverso contratti flessibili di gestione del tempo di lavoro, resta di competenza della parte datoriale.
Il nodo è delicato. Con la nuova formulazione, un ente in difficoltà finanziarie – per mancato rispetto del patto di stabilità, in caso di situazioni prossime al dissesto o per mancato rispetto dei tetti di spesa del personale etc. – ha piena facoltà di decidere di ridurre il proprio personale. E può farlo senza dover dimostrare le mutate esigenze funzionali o organizzative.
Peraltro, quello dell’art. 33, rischia di tradursi in uno strumento arbitrario utilizzabile ad ampio raggio a fronte di esigenze di contenimento dei costi. E proprio perché potrebbe condurre a scelte di rilevante impatto, potenzialmente capaci di colpire nel mucchio, è necessario che in questa fase di riorganizzazione della P.A., la maggior autonomia datoriale rispetto alle scelte gestionali concessa dall’art. 33, si traduca in un rinnovamento dei modelli organizzativi più che in comportamenti adattivi e conservativi dello status quo.
Insomma, alla luce delle modifiche sopra esposte, per quanto riguarda il lavoro pubblico, «l’eventuale cancellazione dell’art. 18, non farebbe altro che acclarare l’esito di una riforma già avvenuta »(L. OLIVERI, L’art. 18? Nella p.a. è di fatto superato, Italia Oggi, 17 febbraio 2012).
E allora sorge spontanea una domanda. Perché la rivisitazione delle norme che presiedono la gestione degli esuberi nella P.a. ha avuto una risonanza mediatica tanto flebile?
La risposta possibile è una: il poliedrico ideologico celato dietro al fannullonismo è tanto forte e radicato da essere riuscito persino a far cadere, silenziosamente, il mito del “posto fisso”.
Germana Caruso
Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Adapt e CQIA - Università degli Studi di Bergamo
Marika Di Biase
Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Adapt e CQIA - Università degli Studi di Bergamo