Rassegna stampa a cura di Gianpaolo Viale, Cristina Lavina, Valter Giordano, Diego Reineri, Claudio Bongiovanni, Guido Marino e Franco Ferraro
Abolirle, fonderle, sostituirle? Da ultimo, la Banca Centrale Europea
ha invitato il Governo ad “accorparle”, come misura che consentirebbe
un chiaro risparmio ai costi della politica
Sulle province continua senza sosta il balletto delle incertezze.
Abolirle, fonderle, sostituirle con i comuni, con le regioni, devolvere
le competenze o eliminarle?
Che intervenire sulle province sia necessario tutti lo dicono, come
procedere nessun lo sa. Anzi, la confusione regna sempre più sovrana.
Da ultimo, la Banca Centrale Europea, per voce di Mario Draghi, ha
invitato il Governo italiano ad “accorpare” le province, come misura che
consentirebbe certamente un chiaro risparmio ai costi della politica.
Dunque, si torna ad utilizzare un verbo, “accorpare”, che non prevede
l’eliminazione dell’ente (voce del verbo “sopprimere”), ma la sua
conservazione, ma razionalizzandone il numero.
La Bce ha forse cambiato idea? Si direbbe proprio di no, rileggendo
il passaggio della famosa lettera dell’8 agosto 2011 (scritta a tre mani
da Draghi, Trichet e Tremonti) riguardante la questione: “3.
Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per
garantire una revisione dell’amministrazione pubblica allo scopo di
migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le
esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare
sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi
sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’é l’esigenza di un forte
impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali”.
Come si nota, checché ne possa dire chiunque, nell’estate scorsa la
Bce non chiese affatto (la famosa tiritera dell’«Europa che ce lo
chiede»…) sic et simpliciter di abolire le province, ma di verificare se
fosse opportuno “abolire o fondere” strati intermedi
dell’organizzazione istituzionale, facendo riferimento alle province
solo come esempio.
E’, tuttavia, bastata questa semplice e anche logica osservazione
della Bce-commissario dell’Italia, perché la campagna già da tempo in
atto, ringalluzzisse gli Stella-Rizzo ed epigoni vari, per
l’eliminazione pura e semplice delle province. Da qui, la cieca e sorda
ottemperanza del Governo-Monti alle presunte indicazioni dell’«Europa
che ce lo chiede» che ha prodotto il paradossale disegno contenuto
nell’articolo 23 del d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011 (il
cosiddetto decreto pomposamente denominato “Salva Italia”, con le
province, proviamo a pensarci, chiamate a salvare il Paese…).
Detto articolo ha previsto un garbuglio inestricabile, dal quale emerge:
a) le province non si aboliscono, né si accorpano, ma restano;
b) tuttavia, le si priva delle loro funzioni, salvo imprecisate e
imprecisabili funzioni di indirizzo e coordinamento dei comuni del
territorio;
c) le altre funzioni delle province (che né Stato né regioni
sanno quali siano…) dovrebbero essere attribuite ai comuni o alle
regioni, con leggi statali e/o regionali;
d) le province divengono enti “di secondo grado”, i cui organi
di governo, presidente, consiglio e giunta, sono una derivazione dei
comuni del territorio, in quanto l’elettorato attivo spetta a sindaci e
consiglieri comunali, secondo quanto ha stabilito un recente disegno di
legge attuativo della previsione.
Dopo l’entusiasmo per la grande “ideona” contenuta nel decreto, però,
qualche si è iniziato a guardare davvero dentro alla riforma e a fare
delle considerazioni meno populiste e da inchiesta scandalistica.
Si è scoperto, ad esempio, che manca totalmente una norma di
carattere tributario e finanziaria che regoli il passaggio delle
competenze dalle province a comuni o regioni. L’attività ordinaria delle
province è, infatti, finanziata in parte da trasferimenti statali e
regionali, in altra parte – preponderante – da entrate tributarie e
patrimoniali proprie. Qualunque ente si dovesse sostituire alle province
nello svolgere le loro funzioni (che non potrebbero essere abolite)
dovrebbe acquisire le connesse risorse per poterle svolgere. Ma, questo
determinerebbe effetti devastanti sulle regole del patto di stabilità e
sui tetti alle spese di personale per gli enti riceventi.
Mentre manca ancora totalmente un semplice barlume di norma che possa
porre rimedio a questa carenza, nonché alla circostanza che regioni o
comuni dovrebbero anche accollarsi il rilevantissimo carico finanziario
degli obiettivi che le province assicurano al patto di stabilità, ci si è
anche accorti che le funzioni di indirizzo e coordinamento non
significano nulla, non servono a nulla e che occorre allora conservare
alle province funzioni di area vasta.
A causa di ciò, le leggi regionali e statali che dovrebbero
trasferire le funzioni provinciali a comuni o regioni sono per ora
cadute nel dimenticatoio. Mentre, invece, è tornata in auge l’iniziativa
normativa pomposamente denominata “Carta delle autonomie”, più
empiricamente qualificabile come riforma del testo unico
sull’ordinamento delle autonomie locali (d.lgs 267/2000), nell’ambito
della quale si intende riattribuire alle province funzioni tipiche di
“area vasta” come programmazione urbanistica, tutela dell’ambiente,
manutenzione delle strade e sistema dei trasporti, ma contestualmente si
eliminano due funzioni fondamentali che non possono non appartenere al
livello provinciale, come l’edilizia scolastica e la rete
dell’istruzione superiore, nonché il sistema delle politiche attive per
il lavoro, per altro fortemente innovato dal contestuale disegno di
legge-Fornero.
Un caos biblico, che per ora, a ben vedere, somiglia ancora al topolino partorito dalla Montagna.
A Francoforte probabilmente se ne sono resi conto. E la Bce, adesso,
raddrizza il tiro e precisa meglio. Indicando che non è il caso di
avventurarsi nella soppressione delle province, la quale per altro
richiederebbe una riforma costituzionale per la quale non vi sono
nemmeno i tempi tecnici (per non parlare degli immani costi
amministrativi per trasferimento di immobili, utenze, titolarità di
contratti e personale). Dunque, una più saggia indicazione volta
all’accorpamento. Operazione estremamente più indolore e semplice
rispetto ad una soppressione sic et simpliciter, in quanto molto più
semplice da gestire sul piano finanziario e tributario: infatti, sarebbe
possibile in modo trasparente garantire il rispetto degli obiettivi del
patto di stabilità, non vi sarebbero problemi anche contrattuali nel
trasferimento del personale, si ridurrebbero significativamente le
“poltrone” politiche, non si determinerebbe la necessità di modificare
radicalmente l’assetto della finanza locale e delle norme tributarie. E
sarebbe anche possibile lasciare alle province tutte le funzioni tipiche
di area vasta, le quali altro non sono se non quelle indicate
dall’articolo 21 della legge 42/2009, cioè la legge delega sul
federalismo fiscale, quella dei fabbisogni standard, tra l’altro già
rilevati proprio in riferimento ai servizi per il lavoro e ai servizi
riguardanti l’istruzione superiore. Sarebbe assurdo sprecare questo
lavoro già svolto, che consentirebbe nelle province, per prime, di
introdurre indicatori di produttività e standard di costi.
Lecito chiedersi se la nuova indicazione della Bce non sia stata
impostata nuovamente a più mani, col Governo italiano, come strategia
d’uscita dal vicolo cieco nel quale il Governo stesso, trascinato dalle
invocazioni di Stella-Rizzo ed epigoni, si era cacciato con la in
felicissima disposizione contenuta nell’articolo 23 del “Salva Italia”.
Adesso, infatti, il Governo potrebbe dire che l’Europa non chiede di
abolire le province, ma semplicemente di accorparle.
Si tornerebbe, così, mestamente, al disegno normativo già proposto
con l’articolo 15 del d.l 138/2011 (la seconda manovra finanziaria
estiva), poi quasi totalmente soppresso dalla legge 148/2011 di
conversione, del 14 settembre.
Sette mesi buttati al vento, per tornare all’unica ipotesi
oggettivamente plausibile, quella della riduzione delle province, ma non
della loro soppressione, visto che il livello intermedio tra comuni e
regioni non si presta ad essere eliminato. In Europa solo Cipro,
Lichtenstein, Città del Vaticano e San Marino non hanno il livello
provinciale. E lo stesso deleterio articolo 23 del “Salva Italia”
prevede, come rimedio all’eliminazione delle funzioni amministrative in
capo alle province che “I Comuni possono istituire unioni o organi
di raccordo per l’esercizio di specifici compiti o funzioni
amministrativi garantendo l’invarianza della spesa”. Insomma, il
frettoloso decreto di fine anno ha puntato disordinatamente sulla
sostanziale soppressione (anche se non di diritto) delle province, per
sperare che nuove forme associative comunali ne prendessero il posto,
senza considerare gli egoismi tipici dei campanili e, soprattutto, senza
ricordarsi della più che fallimentare esperienza delle unioni dei
comuni, utili non per rafforzare e razionalizzare i servizi, ma per
creare enti ancora più deboli e inefficienti.
La Bce, adesso, precisa che le province occorre accorparle e non
eliminarle. Ma nessuno intende prendere in seria considerazione la
necessità di partire a razionalizzare l’organizzazione pubblica in primo
luogo eliminando proprio tutti gli enti intermedi tra comuni e province
come unioni, consorzi, comunità montane (a proposito, ma anche queste
non dovevano essere soppresse), nonché la quantità enorme di enti ed
entucoli regionali, i consorzi di bonifica, i consorzi imbriferi, i
magistrati delle acque e altre simili parcellizzazioni dell’azione
amministrativa, che si presterebbero con estrema facilità ad essere
ricondotti proprio al livello di governo provinciale.
Vedremo se occorrerà attendere l’ennesima lettera o segnale di fumo
dell’«Europa che ce lo chiede» o se saremo capaci noi, finalmente, di
ragionare davvero con le nostre teste, pensando a ciò che è utile e
possibile.