RSU CGIL a cura di Claudio Bongiovanni, Guido Marino, Valter Giordano, Franco Ferraro e Diego Reineri
L’atto finale del taglio delle province, forse, si avvicina. L’esame più approfondito, tramite l’abbozzo di
spending review che tecnici e tecnici al quadrato stanno in qualche modo raffazzonando, fa capire che risulta opportuno agire su due fronti.
Il primo è la soppressione delle province con popolazione inferiore
ai 300.000 abitanti. Siamo a giugno del 2012. La stessa, identica,
proposta era stata inserita solo 10 mesi fa, nel ferragosto 2011, nella
seconda manovra estiva, per poi essere cassata in sede di conversione
del d.l. 138/2011.
Sono passati invano 10 mesi per riproporre nuovamente la stessa idea.
Segno che, come ha detto qualche Ministro, effettivamente la cosiddetta
“
ideona” non c’è, anche per evidente assoluta mancanza di
visione e di fantasia da parte non solo dei ministri, ma anche degli
apparati, evidentemente capaci di produrre solo un certo tipo di
manovre, come in un disco rotto. Ne è esempio la recente uscita
sull’eliminazione di una settimana di ferie, per rilanciare il Pil di un
punto. Amenità simile fu inserita sempre nella seconda manovra estiva
del 2011, a proposito di eliminazione delle giornate festive non
religiose (alla quale, comunque, non si è dato seguito almeno nel 2012).
Sembra davvero incredibile che priorità e modalità di intervento
siano dettati dalle semplicistiche inchieste giornalistiche, le quali da
tempo hanno preso di mira le province come esempio di un taglio da
effettuare per risanare i conti pubblici, nonostante i fatti ed i conti
smentiscano drasticamente tale indicazione.
I risparmi dalla totale eliminazione delle province non
supererebbero, limitandosi ai costi della politica, i 130 milioni di
euro, come ha rilevato l’ufficio studi della Camera a proposito
della sciagurata previsione contenuta nell’articolo 23 del d.l.
201/2011, convertito nella legge 214/2011, il cosiddetto “decreto salva
Italia”, che a ben vedere ha salvato piuttosto poco.
Per aversi un risparmio reale, non vi sarebbe che una strada:
oltre ad eliminare il “chi”, cioè le province, non resta che eliminare anche il “che cosa”, cioè ciò che le province fanno.
Il populismo da bar o le semplificazioni da inchiesta che dà di
gomito ai cittadini esasperati, portano ad affermare che le province
“non servono a niente”, non fanno nulla e così via.
Veniamo, allora, al secondo fronte. Se da un lato pare che comunque
un consistente numero di province resterà per effetto dell’eliminazione
di quelle più piccole (si stima una settantina di province ancora in
piedi), dall’altro lo sciagurato articolo 23 della legge 214/2011
prevede che con leggi statali o regionali, a seconda delle competenze,
le funzioni delle province siano attribuite ai comuni o alle regioni,
laddove non sia possibile assegnarle ai primi. Dunque,
il
Legislatore stesso fa una scoperta molto originale, evidentemente
sfuggita agli astanti del precitato bar ed agli occhiutissimi
giornalisti di inchiesta-antisprechi: le province esercitano delle
funzioni! Se così non fosse, non potrebbero essere traslate verso altri enti.
Il problema è che
quelle funzioni vanno indagate e
conosciute. Ma questo sforzo, evidentemente, appare improbo. Le
inchieste giornalistiche nemmeno si sognano di cercare di capire cosa
concretamente facciano le province, e si può anche comprendere. Meno
giustificabile è che esattamente quali siano le funzioni delle province
non lo sappiano nemmeno lo Stato e le regioni, sebbene per effetto del
d.lgs 112/1998 e delle conseguenti leggi regionali attuative essi
abbiano assegnato molteplici funzioni amministrative, in adempimento al
disegno di decentramento amministrativo impostato dalla legge
Bassanini-1 (59/1997), in aggiunta alle altre funzioni storiche.
La Regione Veneto, per cercare di vederci chiaro, ha chiesto alle
province di elencare, dunque, quali funzioni svolgano le province
stesse. In
allegato si può vedere la prima sommaria ricognizione di una delle province interessate, per accorgersi che
le
competenze provinciali, attribuite sia da Stato sia da regione, sono
estremamente vaste. Ma, soprattutto, quasi tutte con la sola eccezione
di alcuni servizi sociali, difficilmente attribuibili ai comuni,
pena uno “spezzatino” ingestibile ed inefficiente di attività che per
loro stessa natura richiedono un’area territoriale superiore a quella
comunale, ma inferiore a quella regionale.
Il solo esempio delle funzioni in tema di
lavoro è
illuminante. L’offerta di lavoro o di formazione ad un disoccupato è
“congrua” se, oltre ad altri elementi, la sede di lavoro o dell’ente di
formazione disti in un raggio di non oltre 50 chilometri dal domicilio
dell’interessato o sia comunque raggiungibile con mezzi di trasporto
pubblico con percorsi non superiori a 80 minuti. Indirettamente, in
questo modo, quanto meno rispetto al mercato del lavoro, il legislatore
fornisce un elemento per stimare cosa si intenda per “area vasta”. Ma,
il lavoro dovrebbe essere la guida per la ricognizione di un territorio
omogeneo, nel quale programmare e gestire lo sviluppo economico.
All’interno di una regione non vi è un unico mercato del lavoro, ma
tanti mercati, che si tipicizzano nei distretti ed in aree il cui
governo non può essere quello introspettivo legato ai confini di un
comune.
Non è poi così difficile comprendere che questi identici ragionamenti
si estendono all’istruzione e all’edilizia scolastica, alla
programmazione urbanistica, agli interventi sull’ambiente, ma comunque
agli altri e tantissimi aspetti delle attività delle province.
E’ piuttosto evidente che, quella essendo la quantità e qualità delle
funzioni provinciali, difficilmente si riuscirebbe ad eliminare il “che
cosa”. E, dunque, mai si otterrebbe il risparmio secco del volume di
spesa di poco più di 12 miliardi di euro movimentato da questi enti.
Semplicemente, la medesima cifra sarebbe spesa da altri soggetti, i
comuni e le regioni, probabilmente con maggiore inefficienza
organizzativa.
E’ facile supporre, infatti, che sia gli uni, sia le altre,
tenderebbero a considerare le funzioni provinciali ad essi traslati un
corpo estraneo, sul quale intervenire in via non prioritaria.
Altrettanto semplice immaginare che il personale ex provinciale
transitato possa essere molto velocemente avviato a coprire i tanti
buchi in funzioni e competenze proprie e tipiche dei comuni e delle
regioni, a detrimento, dunque, delle attività provinciali.
Eppure, proprio sulla questione delle competenze si sta giocando la
parte più importante della disordinata riforma che si propone. La Carta
delle autonomie prevede una riduzione drastica delle funzioni, senza
considerare alcun criterio di territorialità nemmeno lontanamente simile
a quello della proposta congrua di lavoro esemplificata prima: tanto è
vero che la Carta non menziona le funzioni del mercato del lavoro tra
quelle che residuerebbero alle province, nonostante esse siano
considerate “fondamentali” dalla legge sul federalismo fiscale e
nonostante su tali funzioni siano già stati determinati i fabbisogni
standard.
Chi di competenza, invece di limitarsi a leggere le inchieste, utili
per conoscere meglio gli sprechi ma insufficienti per fondare su di esse
un ragionamento su nuovi assetti istituzionali, farebbe bene ad
esaminare con molta attenzione l’elenco delle funzioni provinciali e
l’attitudine di comuni o regioni a svolgerle. Così anche da riflettere
un po’ di più ed evitare che nelle more qualcuno, come spesso accade,
voglia essere più realista del re. Come proprio la Regione Veneto, la
quale nonostante abbia intavolato con le province un sistema di
ricognizione delle funzioni finalizzato all’emanazione della legge che
entro il 31.12.2012 dovrebbe riarticolare le competenze provinciali
dettate dalle leggi regionali, unilateralmente sta riappropriandosi di
competenze e funzioni in tema di cave, tirocini estivi ed apprendistato,
motivando ciò con l’osservazione della prossima sottrazione delle
funzioni provinciali e senza nemmeno curarsi minimamente di attuare
quanto l’articolo 23, comma 19, della legge 214/2011 prevede: “
Lo
Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresì
al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per
l’esercizio delle funzioni trasferite”. Del trasferimento di
risorse, nelle ipotesi di leggi regionali venete, non v’è nemmeno
l’ombra. Il modo ideale, insomma, per attuare la riforma delle province
innescando processi di inefficienza gestionale e esuberi a catena di
personale.
In tutto questo frangente, consorzi, consorzi di bonifica, bacini
imbriferi, magistrato delle acque, enti parco, enti ed entarelli
regionali, comunità montane ed unioni di comuni di ogni genere,
continuano ad esistere e a persistere nel frastagliare le competenze ed a
sovrapporle a quelle di comuni e province in particolare, senza che
nessuno sia in grado di capire quali e quanti siano, quali spese
movimentino, quale utilità concreta abbiano (visto che esercitano
acclaratamente funzioni sovrapposte a quelle degli enti locali), senza
esaminare nemmeno l’opportunità di accorpare questi enti a comuni o
province, il che darebbe davvero una spinta razionalizzatrice al sistema
istituzionale. Ma, forse, le cariche di amministratori di questi enti
sono troppo importanti per garantire un futuro a chi abbia imboccato il
viale del tramonto politico ed assicurargli una conclusione di carriera
comunque redditizia e di potere.
La strada verso l’irrazionale modifica ordina mentale che riguardi le province appare spianata, in ogni caso.
Una considerazione finale va fatta. Il legislatore è ovviamente
libero di apportare all’ordinamento tutte le riforme che crede. E’ di
questi giorni la conferma, però, che le avventure servono a poco e
costano tanto, tantissimo. Ci si riferisce alla
pletora di
agenzie sorte a partire dal 1999, enti serviti quasi solo a spacchettare
direzioni generali dei ministeri, creando nuovi presidenti, nuovi
direttori, nuove direzioni generali, migliaia di dirigenti a contratto
cooptati non si sa come e perché. L’agenzia dei segretari
comunali è stata soppressa, l’agenzia del territorio viene accorpata a
quella delle entrate, i monopoli di Stato confluiscono nell’agenzia
delle dogane. Facile immaginare che anche queste altre agenzie non
avranno ulteriore vita lunga.
Altrettanto facile è preconizzare che se la riforma delle province
proseguirà lungo la strada segnata, entro un decennio occorrerà
ripensarla e correggerla, tali le incongruenze e le inefficienze si
riveleranno come per quello che già oggi appaiono.